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Era una terra di nessuno, stesa fra il morente zarismo e il nascente bolscevismo, quella in cui agiva Nestor Makhno.
Allo stesso modo lo è quella in cui scorrazza il progetto solitario di
Paolo Cantù che, in piena libertà, si incastona fra post punk e noise.
Ma, a differenza dell’anarchico russo che dovette combattere su due
fronti, il coleottero lombardo flirta con i due, e anche con altri, vicini di casa.
“The Third Season” in realtà è una seconda stagione che fa
seguito alla primavera di “Silo Thinking” e, come tale, appare asciutto e
torrido. È una falce che mozza la testa al grano, un martello che
deflagra picchiando sull’incudine, un’onda marina che spazza la battigia
e schiaffeggia le rocce. È l’industrial che, raggiunta l’età matura, si
fonde con la tradizione rock. C’è una forza primitiva, viscerale e
selvaggia in tutto questo: Jerry Lee Lewis che pesta con i piedi la
tastiera, Hendrix che violenta la chitarra, F.M. Einheit che spacca
mattoni …
Cantù potrà apparire accidioso in questa sua sdegnosa solitudine, il solo Ciappini è chiamato a prestare la voce in Avevo cose da dire, ma in realtà è solo figlio di tempi nei quali ogni idea collettiva è prossima al collasso.
Non so se sia il caso di attendere anche l’esplosione di colori
dell’autunno e la temperatura glaciale dell’inverno, perché è probabile
che oltre il tempo delle mele non vi sia realtà futura.
Da segnalare, segno di grande stima nei confronti di Cantù, la
fenomenale cordata che ha preso parte alla produzione del disco.
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