venerdì 14 dicembre 2012
mercoledì 12 dicembre 2012
MAKHNO - RECENSIONE SHIVER WEBZINE
Chi è Makhno? Makhno è il one man project di Paolo Cantù,
musicista autodidatta, sperimentatore estremo della chitarra elettrica e
di qualsiasi altra cosa gli capiti tra le mani. Dopo aver militato in
alcuni dei gruppi più importanti della penisola, dai pionieri industrial
Tasaday alla prima incarnazione degli Afterhours, passando per i
seminali Six Minute War Madness e A Short Apnea, fino a
tutte le formazioni più recenti, è sempre riuscito a mantenere un
profilo basso, arrivando all’esordio solista appena qualche mese fa nel
10” della Phonometak Series, condiviso con l’amico di scorribande
sperimentali Xabier Iriondo. Silo Thinking è la sua prima prova in completa autonomia. L’album in vinile 12″ esce in coproduzione con le etichette Wallace Records, Hysm?, Brigadisco e Neon Paralleli (dello stesso Cantù) e vede come unico contributo esterno la presenza di Federico Ciappini (Six Minute War Madness).
“Silo thinking
è il termine inglese usato per definire il “pensare a comparti stagni”.
Io ho utilizzato molto il “silo thinking” in momenti in cui i problemi
da affrontare erano troppi e i rischi di non trovare soluzioni
altissimi. Il riferimento è dunque molto personale, ma è anche un po’ la
storia del disco e dei brani. Ho lavorato in modo da trovare per ognuno
di loro una soluzione particolare, come se ogni episodio qui presente
fosse un comparto stagno, anche se poi inevitabilmente (sia nel caso del
disco che nella vita) ti rendi conto che le metodologie per trovare
soluzioni, spesso, sono le stesse.” Descrive così Paolo Cantù la
propria avventura col nuovo disco, più di trenta minuti di ricerca,
protesta, amaro ricordo ed estro creativo infinito; e così il mago
Makhno si destreggia autonomamente fra chitarra, basso, batteria,
clarinetto, elettronica e nastri, inscenando un disco di avant-noise,
rock acidulo, senza negarsi sprazzi di industrial e contaminazioni
storiche.
Canzoni-manifesto che filtrano avidità, forza, rabbia e urgenza: quello di Makhno non è un urlo aperto -come l’opera estrema di Iriondo col suo Irrintzi-
piuttosto un’implosione interiore, selvaggia e sintomatica di un
disagio sociale attualissimo, di una non- Storia lacerata, da nomi,
luoghi e persone. Dalla liquida e ipnotica ”Remember” che ricorda la
Congiura delle polveri del 1605 (fallito complotto progettato da un
gruppo di cattolici inglesi a danno del re Giacomo I d’Inghilterra) in
mezzo a lidi free-jazz distorti e psichedelici, ai ritmi à la Ulan Bator de ”La Makhnovtchina”, inno della resistenza anarchica ucraina guidata dall’irriducibile Nestor Makhno. Il post-industrial di ”Ulrike” si fa spasmodico e acido nel ricordare la giornalista e terrorista tedesca Ulrike Marie Meinhof. ”Zena” è
un dipinto coloratissimo che racconta degli scontri avvenuti a Genova
il 30 giugno 1960 contro il congresso fascista organizzato in città.
Spettri rock ed esaltanti drone di chitarra riecheggiano un passato
difficile in cui Cantù sembra sentirsi ancora prigioniero. La voce del
compianto Stiv Livraghi, fondatore dei Tupelo, entra palpitante nell’oscuro turbinio carnale di ”Stiv”, marziale saluto all’amico scomparso nel 2000 in seguito ad un drammatico incidente stradale. Atmosfera tesissima per ”Father and Son”, un post-rock abrasivo e rumorista mentre gli otto minuti de ”La fine della storia” ricordano un desert-blues tiratissimo e vorticoso. La conclusione è affidata a ”Custer” che vede il primo e unico apporto esterno, quello di Federico Ciappini
(ex Six Minute War Madness) che qui regala una voce narrante, fra
allucinazione e violenza, per una nervosissima confessione a cuore
aperto sulla feroce battaglia di Little Big Horn. Ai più potrà forse
suonare come un impasto fra Massimo Volume e Offlaga Disco Pax… niente
di tutto ciò: c’è una disperazione alienata e straziante, un sarcasmo
tombale che avvicina il recitato di Ciappini a un violento assalto
sonoro del miglior Carmelo Bene.
Quello creato da Makhno/Cantù
è un fiume in piena, le cui acque straripano fra rock industrial
sperimentale e noise, ma quel noise bello, fatto di chitarre
sferraglianti un po’ Shellac un po’ Suicide. È anche un fiume di satira incattivita e tagliente a metà fra Pere Ubu e Jesus Lizard, incastonato in un’atmosfera ossessiva e meccanica. Silo Thinking
è un album intenso e nervoso, come solo un album politico sa essere,
con la sua voglia di partecipare e vivere l’obbligatorietà di una
scelta. Fare politica è questo e la bellezza di prendersi la libertà di
pensare e agire seppure stanchi e delusi da una società vecchia, arcigna
e arida. Per concludere questo viaggio all’insegna della
destrutturazione sonora e degli idealismi simbiotici, vi lascio alle
parole di Ciappini nel finale dolcemente straziante di ‘Custer‘: ” Sento
che noi siamo così Paolo, circondati e senza alcuna speranza di
salvezza, e ciò nonostante valorosamente ci battiamo……noi discendiamo
dagli dei e abbiamo il coraggio, la volontà, la forza delle nostre idee e
conosciamo l’amore, l’amore che è una cosa meravigliosa, che è una cosa
viva, che è una cosa immensa, come la nostra vita, come le nostre
donne, come le nostre musiche e le nostre grida Dammi due pistole Paolo,
che voglio morire come il Generale Custer”.
Beatrice Pagni
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domenica 2 dicembre 2012
MAKHNO - NUOVE RECENSIONI, NUOVO LINK STREAMING
ASCOLTA MAKHNO - SILO THINKING IN STREAMING CLICK HERE
NUOVE RECENSIONI:
BASSIFONDI Postfanzine
Pressoché inconsistenti sono le probabilità,
che tale disco di Paolo Cantù, in arte Makhno, venga apprezzato,
appurato e ‘viaggiato’ lungo tutti i suoi sentieri, allo scadere di un
solo primo ascolto, di una sola prima impressione. Tanto quanto
inconsistenti risulterebbero i tentativi di elencare le varie e
intricate motivazioni, per cui l’ascolto di “Silo Thinking” (Hysm? / Brigadisco Records / Wallace Records / NeonParalleli, 2012) risulta
meravigliosamente invadente e
coinvolgente. Un album, che dato il forte interesse e fascino che suscita, incita
alla scrittura e, ancor più, ad approfondire la vicenda Makhno, nei suoi
risvolti non prettamente musicali, ma, più largamente, politici. Perché
sembra proprio un risveglio improvviso di coscienza, quello che porta
alla nascita di un disco di tal tipo; un risveglio dal sozzo sudiciume
della (ir)realtà storica contemporanea. Un risveglio di coscienza, che
permette di tessere un paragone con il percorso rabbioso, intrapreso dai
Fuzz Orchestra, ma le similitudini, ritornando sui nostri passi e
concentrandoci su un discorso musicale, terminano qua. Tuttavia, non
sembra a noi minoritaria l’importanza, che andrebbe dedicata a tale
sfaccettatura: la musica, che, in tempi di crisi esistenziali, si
riappropria dei contenuti per dar vita a un fuoco fatuo, con cui poter
incendiare le macerie abbandonate di quegli ideali, che le convenzioni
di un passato opprimente hanno portato allo stato di ultimo degrado.
“Ecco, io, spesso, mi sento così, sento che noi siamo così, Paolo.
Circondati e senza alcuna speranza di salvezza, e ciò nonostante,
valorosamente, ci battiamo con l’eccezione che i nemici non sono i
coraggiosi Sioux, bensì una massa di stupidi, di ignoranti, di pecore,
che obbediscono per paura. E sono pigri e indecenti e servi.” Poesia
politica, futurista e popolare.
THE WHITE SURFER
E' praticamente impossibile parlare di Paolo Cantù senza tracciare un parallelo con la carriera di uno dei suoi più longevi compagni di viaggio, Xabier Iriondo:
entrambi sulla scena musicale da oltre vent'anni, durante i quali hanno
dato vita a molte delle band cardine dell'underground nazionale, dagli Afterhours ai Six Minute War Madness, dagli A Short Apnea agli Uncode Duello,
passando per un'infinità di progetti minori; entrambi giunti
all'esordio in solitaria solo ora, peraltro dopo un'anticipazione
condivisa nel decimo ed ultimo volume della Phonometak Series, in cui
gli artisti si spartivano i due lati del 10".
E' invece impossibile per me fare un confronto tra il disco in
questione ed "Irrintzi", l'album di Iriondo, che non ho ascoltato. Cosa
che non mi impedisce comunque di tessere le lodi di questo eccellente
"Silo Thinking": c'è molto delle esperienze pregresse del nostro Makhno,
a partire dai clangori industrial della chitarra (ecco i Tasaday) che
spesso e volentieri si lancia in sferraglianti progressioni noise memori
degli Shellac (Remember) e dei Novanta più noise e math.
Esplicito il messaggio politico sin dalla scelta del moniker, preso in prestito all'anarchico ucraino Nestor Makhno al quale è dedicata una versione noise - e qui L'Enfance Rouge ha fatto scuola - dell'inno La Makhnovtchina, e che continua con le successive Ulrike (Meinhoff, della banda Bader-Meinhoff), proto-techno a suon di drum machine e sei corde, e Zena, racconto antifascista d'epoca in dialetto genovese immerso in un delirio di percussioni e destrutturazioni chitarristiche (e qui sbucano le sperimentazioni degli A Short Apnea). Paolo Cantù si occupa di tutto: chitarre, basso, batteria, voce, drum machine, clarinetto, nastri. Campionamenti vocali a parte - tra i quali spicca il commovente omaggio all'amico Stiv Livraghi, frontman dei Tupelo e dei Playground (band dalle quali nacquero i lodigiani Satantango) morto in un tragico incidente d'auto - l'unico contributo esterno è quello di Federico Ciappini dei Six Minute War Madness nella trascinante (a onor del vero, i primi Massimo Volume potrebbero chiedere i diritti d'autore), conclusiva Custer, vera e propria dichiarazione di guerra alla mediocritocrazia oggi imperante.
Non corre invece il rischio di essere mediocre Cantù, che ci regala un album riuscitissimo nonché ottima sintesi di una carriera che pochi, in Italia, possono vantare.
Esplicito il messaggio politico sin dalla scelta del moniker, preso in prestito all'anarchico ucraino Nestor Makhno al quale è dedicata una versione noise - e qui L'Enfance Rouge ha fatto scuola - dell'inno La Makhnovtchina, e che continua con le successive Ulrike (Meinhoff, della banda Bader-Meinhoff), proto-techno a suon di drum machine e sei corde, e Zena, racconto antifascista d'epoca in dialetto genovese immerso in un delirio di percussioni e destrutturazioni chitarristiche (e qui sbucano le sperimentazioni degli A Short Apnea). Paolo Cantù si occupa di tutto: chitarre, basso, batteria, voce, drum machine, clarinetto, nastri. Campionamenti vocali a parte - tra i quali spicca il commovente omaggio all'amico Stiv Livraghi, frontman dei Tupelo e dei Playground (band dalle quali nacquero i lodigiani Satantango) morto in un tragico incidente d'auto - l'unico contributo esterno è quello di Federico Ciappini dei Six Minute War Madness nella trascinante (a onor del vero, i primi Massimo Volume potrebbero chiedere i diritti d'autore), conclusiva Custer, vera e propria dichiarazione di guerra alla mediocritocrazia oggi imperante.
Non corre invece il rischio di essere mediocre Cantù, che ci regala un album riuscitissimo nonché ottima sintesi di una carriera che pochi, in Italia, possono vantare.
Alessandro Gentili
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