Di Nazim Comunale
Ogni
volta che si parla di Makhno,
il progetto autarchico di Paolo
Cantù,
si fa riferimento alla sua densa e lunga storia (dagli esordi
industrial di Tasaday,
alla primissima formazione di Afterhours,
per poi passare all’urgenza rock di Six Minute War Madness,
alle esplorazioni avant di A
Short Apnea e
infine a Uncode
Duello in
duo con Xabier Iriondo). Didascalico, prevedibile, ma probabilmente
giusto ed inevitabile, tanto più in tempi come i nostri dove spesso
salgono alla ribalta dal nulla musicisti poco strutturati, privi di
un solido background di riferimento, oppure che si preoccupano più
di pose, di imitazioni malcelate, di inseguire l’ultima moda. Lui,
con coerenza e olio di gomito, appartato ma pronto a gettarsi nella
mischia (registra i propri dischi in autonomia e va ancora in tour,
anche se mi ha confidato che anche per un progetto agile come il suo
– si porta dietro all’occorrenza tutto, gli basta semplicemente
la corrente elettrica – è sempre più complicato trovare
situazioni per fare concerti), continua invece a seguire la propria
strada. All’insegna di una musica affilata e che sa di ruggine, tra
memorie industrial, vapori di cantieri rock, astrazioni impro, bave
noise. Semplicemente un modo coraggioso, personale e senza paraocchi
di fare rock in Italia, adesso. Leaking
words,
uscito a marzo 2018, è l’ennesimo ottimo disco che lo vede
coinvolto, il terzo come Makhno, a seguire Silo
Thinking del
2012 e Third
Season del
2015. Ne abbiamo approfittato per fargli qualche domanda.
LEGGI QUI - READ HERE
Nessun commento:
Posta un commento