Una sperimentazione sincopata e deragliata che
si nutre di scorie noise, avanguardia elettronica, art rock, rivoli di
blues deviato e torbido. Il primo lavoro solista di Paolo Cantù,
musicista di provata esperienza, sulla scena undeground da oramai oltre
un ventennio, risulta essere fedele al moniker scelto: emblema di
anarchia e fedeltà incondizionata al proprio istinto -se vogliamo essere
precisi- alla parte più selvaggia e svincolata nascosta nel proprio io.
Tutti gli otto brani dell'album trasudano impellenza, voracità,
frenesia creativa e allo stesso tempo sono fluidi e reattivi nel gioco
instancabile delle libere associazioni. Abozzi di astrattismo neo
primitivo come palpiti di viscerale, arcana reazionarietà,
incontrollabile forza vitale. Convergono in "Silo Thinking",
con omogeneità sbalorditiva, le innumerevoli incarnazioni e le
sfaccettate complessità di Cantù: le abrasività vintage e rumoriste di
Six Minute War Madness; i tapes recording di A Short Apnea; le intensità
e il nervosismo strumentale da simbiosi interattiva e ricerca sonora
espressi in Uncode Duello; la cinematica industrial e tribale dei
Tasaday.
Le impalcature ritmiche, i pattern rumoristi destrutturati e
continuamente sovrapposti e stratificati, spesso dissonanti e costruiti
su tempi irregolari, danno luogo ad una dimamica di interazioni, si
irrobustiscono e pulsano, lasciano sempre impensabili spazi all'armonia
di fondo, ad un ideale unitario. Custer, Zena, La Makhnovtchina
sono decisamente inni di orgoglio e vigorosa autonomia identitaria che
richiama la sferzante satira dei Pere Ubu e allo stasso tempo si
riaggancia a trame di nientificazione metaforica che i Tasaday avevano
eletto a bandiera ideologica. Ulrike, Father and son
intrecciano la meccanica del disfacimento e dell' abbruttimento urbano con
la resistenza tribale e ostinata. Sembra una lotta impietosa quanto
eroica contro la spersonalizzazione. Poi c'è un meraviglioso omaggio ai
Tupelo di Stiv Livraghi con la palpitante Stiv: oscura, graffiante, sanguinante e sporcata dei riverberi blues del clarinetto e dalle percussioni carnali e primitive. Remember e Fine della storia
si imbevono nell'essenza liquida e simbolista di Beefheart, sono corse
forsennate di ricerca dell' essenziale, impregnate di vibrazioni e
intuizioni che raccolgono riflessi di inesprimibile e intraducibile,
scariche adrenaliniche, confluenze di caos riflesse da una eclettica
lente deformante e da un indicibile istrionismo arty. Un disco
assolutamente originale ed unico, spiazzante e inaspettato. Se esistesse
un ipotetico tavolo delle scommesse in nero dedicato all'alternativo di
maggior pregio ci punterei tutto, pure la biancheria intima.
Romina Baldoni
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